
Ogni anno, con sempre maggior anticipo, capita di assistere
ai preparativi per gli addobbi natalizi: maestosi alberi, sontuose vetrine
drappeggiate e, soprattutto, luminarie con fogge di ogni tipo, si va da quelle
semplici, a stella, fiocco o pacco-dono, a quelle più sofisticate che
rappresentano Babbo Natale con la slitta. Stranamente mancano, chissà perché,
quelle a forma di banconota, soggetto che riveste il tema dominante di queste
feste, inneggianti allo spreco e al consumismo più esasperato. Si spende per
l’opulento banchetto, per l’eccentrico abbigliamento da sfoggiare al cenone,
per i doni di ogni sorta da elargire, a guisa di status symbol, così come per
la vacanza esotica o in luoghi mondani. L’affannosa corsa all’acquisto che
connota questo periodo, fa pensare ad un mal dissimulato tentativo di colmare
un preoccupante vuoto interiore che richiederebbe ben altri valori rispetto a quelli pecuniari.
Non per niente si nota un diffuso desiderio di recuperare antiche tradizioni
che forniscano quel senso di appartenenza e di radicamento al vissuto che
l’attuale ritmo di vita, frenetico e contradditorio, sembra volerci negare.

Ricordo ancora nitidamente quel Natale trascorso presso il
reparto di chirurgia d’emergenza dell’
Ospedale Niguarda, al capezzale di mio
padre: che tristezza infondeva quel corridoio freddo e scarsamente illuminato,
la gigantesca camerata nella quale non era dato di celare, pudicamente, nemmeno
la propria sofferenza e il proprio dolore. Si udivano lamenti a stento
soffocati, si notava l’ansia e lo smarrimento negli occhi dei pazienti che attendevano la decisione riguardo alla
fattibilità di un intervento che avrebbe potuto garantirgli la
Opera S.Francesco, a coloro che passeggiano
soli, senza meta, nella speranza di incontrare uno sguardo meno ostile o
un caldo cenno di saluto che gli ricordi
che è festa anche per loro. Probabilmente, a ben pensarci, aveva ragione quel
saggio che scrisse: “La gioia nasce nel momento in cui abbandoni la ricerca
della tua felicità per donarla agli altri”. Perché sia Natale ogni giorno.
vita o che, al
contrario, nell’arco di pochi secondi, gliela avrebbe negata.

Che dolore vedere gruppi di parenti
abbracciati e con lo sguardo

impietrito per la morte del proprio
congiunto. Guardando fuori dalla finestra, per evadere da quel senso di
angoscia e di prostrazione opprimente, si notava il buio più fitto intorno al
piazzale, soltanto una piccola stella intermittente, posta dinanzi ad un bar,
ricordava che era Natale, proprio mentre altrove ci si accingeva ai preparativi
per il cenone. Che dire a quegli ammalati seduti ad osservare, come unica
consolazione, il fioco bagliore di quella luminaria che pur gli rammentava una realtà diversa dalla loro
ma, soprattutto, come trovare le parole per recare un conforto a coloro che
giacevano in agonia, attendendo un parente che non sarebbe mai arrivato? Che
strano effetto faceva quel muto presepe posto dinanzi all’entrata, lo si
guardava e riguardava quasi per convincersi che “tenendo duro” forse ci
sarebbero stati tempi migliori in cui a noi tutti, degenti e congiunti, ci
sarebbe stato dato di gioire, anche di poco, ma fuori da quello squallido
ambiente, lontano da quella lacerante desolazione. E pensare che per alcuni, la gioia natalizia
era semplicemente poter mangiare, e magari
anche soltanto una minestrina, meno
fredda ed insipida del solito, era una maggior premura da parte del personale
paramedico, spesso frettoloso se non addirittura assente, un “buon Natale”
detto anche soltanto da uno sconosciuto. Quello stesso augurio che io,
umilmente, sulla base di questa toccante esperienza, mi sento di dover porgere
a coloro che hanno come unico diversivo la televisione, a quei bimbi che
attendono la telefonata di un genitore che non vedono mai, a quei senza dimora”
che si aggirano per le strade alla ricerca di un possibile ricovero sotto un
portico, in coda alla mense dell’

Forse basta soltanto un sorriso, un gesto … una parola amica:
“Buon Natale!”
(Giuseppina Serafino)
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