Il nostro Natale di umili emigranti del Sud , pareva quello della buffa famiglia di “Natale in Casa Cupiello” fatto di capitoni che sgusciavano per la casa e di frasi stereotipe “Fa fredd?”, “Eh… fa fredd!” pronunciate quasi per convincersi del contrario, in quel gelido abbaino del 5° piano in Porta Romana, mal riscaldato dalla varie stufette adoperate, diverse a seconda delle nostre fasi economiche : a kerosene,
carbone, o legna delle cassette
del mercato. Che gioia quel gusto dell’evento, assaporato con il piccolo dono
dei commercianti del quartiere,

impietositi
forse dalla nostra naturale
espressione sofferta di quattro “personaggi
in cerca d’autore”: un panettoncino o
una bottiglia di marsala, che adesso
corroderebbe lo stomaco, non più
avvezzo a quelle cibarie dozzinali. Giorni e giorni di ansie per decidere il
menù del 25: pastasciutta con sugo di
agnello e patate al forno, poche le varianti, anzi, nessuna. Ma ci sentivamo
contenti di indossare il vestito bello,
di scambiarci un unico regalo, io ricevevo alternativamente un telefono di plastica
o un piccolo pianoforte; la sorpresa consisteva ogni volta nel capire quale dei
due sarebbe arrivato e di quale colore fosse.
Che importa, la fantasia mi proiettava
comunque in dimensioni di gioco ricche ed appaganti. Come quelle che
vivevo quando un vicino di casa ci
regalò il suo presepe di statuine di gesso, che
sembrava l’epopea della nostra vita: pastori, con la bisaccia a tracolla
che sorvegliavano il gregge nelle

pianure assolate di una terra d”origine poco
generosa; tante donne con il fazzoletto sul capo che portavano secchi d’acqua o
ceste, così come imponeva la tradizione di noi
gente meridionale. Facevano da corollario minute casette di cartone e
animali da cortile, da far invidia alla fattoria di Nonna Papera e tutta una
serie di infiltrati che accorrevano alla capanna non si sa bene a quale titolo,
inseriti solo per fare numero. Più volte al giorno capitava di dover rimettere
in piedi le statuine che nel folto muschio sintetico, cadevano a terra, non si
sa se per la precaria base di appoggio o perché tramortiti da quel nostro piatto ritmo di vita di semplice sussistenza.
Ricordo di aver “medicato” una di queste, apponendo sulla mano sbrecciata anziché lo scotch, merce troppo preziosa, un cerotto che in qualche modo umanizzava
quei muti coinquilini.

Ancora adesso
sorrido quando mi capita fra le mani quel mutilato pastorello. E pensare che
ogni anno li avvolgevamo meticolosamente
in carta di giornale, per poi accatastarli tutti alla rinfusa in un
sacchettone della spesa, nel solaio, e ritrovarli integri, non si sa come, il
Natale successivo. Colui che si affezionò maggiormente al presepe fu mio padre
che ogni anno sollecitava i preparativi per l’allestimento, seguiva divertito
le varie fasi ma, soprattutto,
trascorreva i suoi solitari pomeriggi, osservandolo, quasi si trattasse di una
vera e propria rappresentazione teatrale. Riassaporando forse le fatiche
agresti nelle masserie della sua amata Lucania, provvedeva più volte al dì, all’accensione delle lucette che illuminavano
gli addobbi

natalizi, a guisa di un
guardiano del faro o meglio, di una vestale
preposta al focolare del desco domestico. Ancora adesso mi chiedo come
lui, o la casa non si sia “abbrustolita”, a causa del perpetrato abuso di
corrente su quei materiali di bassa qualità.

Ora il presepe non mi capita più di allestirlo, ma ogni
anno, la vigilia di Natale, mi reco al cimitero di Lambrate per portare una statuina del Bambinello sulla tomba dei miei genitori . Attraversando
all’imbrunire i lunghi vialoni, osservo il cielo, tinto di rosso dal tramonto, puntellato dagli scoppi dei petardi che
preannunciano la gioia della condivisione
affettiva e della convivialità a
cui molti si preparano. Che effetto, intuire il
vero sapore della festa, che non
ho più provato dopo quell’infanzia povera
ma serena; tornare a casa, senza
aver più l’assillo festoso dei preparativi , in un ambiente freddo,
e non certo per le carenze
strutturali dell’abbaino di Porta
Romana. Affrettando il passo fra quelle ombre scure, che trasmettono pace, mi scopro a bisbigliare a quei visi,
che mi guardano sorridenti dalle foto delle lapidi: “Buon Natale”, mentre mi
accorgo di far fatica a trattenere un
nodo che mi stringe la gola, e una lacrima, che chissà come mai, beffarda, vorrebbe
solcarmi impietosamente il viso.

Auguri da Giuseppina Serafino
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